Konè, Ombra della Tigre
Capitolo 1
I Giardini delle ceneri
“… tra le verdi praterie a oriente… isolato
e pacifico…… stregone……… aiuto agli spiriti …………… rituale…………… bambino”.
«Madre,
cosa state leggendo?»
Seduta
compostamente su una panchina in legno scuro, una donna alzò la testa verso l’aitante
giovanotto ben vestito che le si era avvicinato.
«Un
pezzo di carta perduto nel vento.»
«Fate
vedere.»
Orwell
afferrò il foglietto stropicciato e sporco, segnato dal lungo viaggio che aveva
affrontato prima di arrivare dove si trovava in quel momento. Tre angoli erano
strappati, il quarto bruciacchiato. Molte parole erano sbiadite, coperte dal
fango, sostituite da macchie di umidità o cancellate dal tempo stesso. Le poche
ancora leggibili non assumevano un gran significato senza le loro sorelle.
Ad
un cenno della mano, Orwell restituì la carta sgualcita ai sottili guanti
ricamati che la stavano stringendo pochi istanti prima.
«Vi
state godendo il pomeriggio, madre mia?»
«Decisamente.
Non avrei pensato che tornare qui dopo tanti anni mi avrebbe giovato.»
«Ne
sono davvero lieto. Per avervi sollevata, questi giardini devono essere magici
ben più di quanto si dica.»
L’uomo si riferiva alla vecchia leggenda che
circondava il parco situato al centro della città.
Una
enorme fenice, che come tutti sanno possedeva la straordinaria capacità di
rinascere dalle proprie ceneri, si diceva passasse le giornate a riposare in
vasti spazi aperti. Quella creatura oziosa stava dormendo, come di consueto, persino
quando giunse il momento della sua morte.
Non
si rese conto che il proprio corpo veniva divorato dalle fiamme, e forse fu
proprio la pigrizia che la contraddistingueva ad impedire che rinascesse. Il
piumaggio dai colori accesi e brillanti si trasformò in una vasta, desolata
distesa grigiastra.
Ciò
nonostante gli alberi cominciarono a crescere alti e robusti, i fiori
sbocciavano colorati, l’erba verde e rigogliosa ricoprì tutta la zona cenerina.
Così le persone ci costruirono intorno degli accampamenti e poi un paesello,
che crebbe fino a diventare la magnifica e prospera città che prese il nome di Rhuddem.
Questo
era anche il nome della fenice della leggenda, e la sua eredità divenne meta per
curiosi e pellegrini, tutti affascinati e desiderosi di ammirare i rigogliosi Giardini delle ceneri.
«Miracolo!»
Alzatasi
in piedi, Astell rassettò la gonna larga ed elegante che aveva indossato al
pranzo di compleanno del figlio, poi camminò con grazia verso un’aiuola di
fronte a lei. L’unica cosa che desse credito alla leggenda della fenice era una
straordinaria proprietà dei Giardini delle ceneri: dalla base di ogni albero e
di ogni fiore spesso fuoriuscivano delle fiamme, leggere e sottili, come caldi soffi
visibili a occhio nudo, tanto ardenti da riscaldare ma non abbastanza da
bruciare quello che toccavano.
Quel
fenomeno, che si verificava molto più di frequente nelle piante al centro del
parco, era chiamato respiro di fenice.
Neanche i maghi più eruditi riuscivano a capire da quale magia avesse origine.
«Miracolo!
Torna subito qui!» ordinò la donna.
Il
gatto, completamente immerso nel suo girovagare, si era allontanato perché
aveva trovato un fiore isolato con cui divertirsi: dava colpi decisi alla
corolla, così il lungo e robusto stelo oscillava più e più volte per poi
tornare alla posizione primordiale.
«Qual
è il problema, madre? Non ci sono pericoli ai Giardini delle ceneri.»
«Non
ce ne sono per noi» ribatté Astell con disappunto, mentre correva a prendere in
braccio il suo micio.
«Quello
è un narciso. È molto pericoloso per i gatti!» spiegava, accarezzando la testa
di Miracolo. Poi sfiorò il lato
sinistro del corpo, segnato da ustioni violente che il pelo argenteo, ormai
ricresciuto, nascondeva quasi completamente. Appoggiò delicatamente la mano per
sentire il respiro dell’animale, a cui chiese: «A proposito. Dov’è Frusta?».
Sbadigliando,
Miracolo avvolse il proprio corpo con la coda e si adagiò nel rilassante
abbraccio della sua padrona, che continuava ad interrogarlo con insistenza.
«Mi
ricordo di averlo visto vicino all’ingresso di Vallescura. Volete che vada a cercarlo, madre?»
«Non
occorre, Orwell caro. Prepara la carrozza perché mi riporti a casa, io sarò di
ritorno in pochi minuti.»
«Come
desiderate» affermò il giovane uomo prima di allontanarsi.
Astell
si incamminò nella direzione opposta, attraversando le siepi tagliate con
grande maestria e le fontane zampillanti. Ammirava i piccoli arcobaleni che
nascevano dalle allegre piogge di spruzzi e il verde acceso dell’erba,
assaporando il contrasto tra quei colori e il terreno di pallida polvere, fino
a giungere a Vallescura.
Era
la zona dei giardini dove gli alberi erano più bassi, fitti e meno distanziati.
Le ragnatele formate dai rami cresciuti intrecciandosi tra loro erano molto
suggestive, ma rendevano il piccolo boschetto molto inospitale rispetto al
resto del parco, e perciò poco frequentato. Per questo motivo nascosti tra quei
tronchi c’era una moltitudine di piccoli capanni con pale, vanghe e
fertilizzanti di ogni genere.
«Ebbene?
Frusta è da questa parte?»
«Miao!»
Sembrò
un verso di assenso. Inoltre guardando il terreno con attenzione si potevano
notare impronte feline impresse sulla cenere.
Seguendo
le tracce si arrivò facilmente all’animale che le aveva lasciate: un gatto
snello e allungato, il cui pelo corto era arancione sul dorso e color panna sul
petto; sparute strisce castane sulla fronte ricordavano graffiti tribali.
Dopo
un prolungato miagolio di Frusta, Miracolo si divincolò e saltò a terra. Corse
dietro alla sua compagna ed entrambi sparirono nella vegetazione.
«Non
è proprio il momento di giocare» borbottava Astell, seccata: «Che vi prende
oggi? Ho detto che dobbiamo tornare a casa».
Seguire
i due gatti diventò difficoltoso. Le orme che lasciavano sulla cenere erano
evidenti ma si stavano addentrando tra cespugli sempre più intricati.
La
gonna di Astell si impigliò tra le fronde più basse e le radici sporgenti, così
lei perse l’equilibrio e cadde a terra dopo una goffa giravolta. I capelli biondi
raccolti con cura in un nastro viola si scompigliarono e le ricaddero sulle
spalle. Stava per urlare incollerita, quando udì un miagolio pacato. Vide i
felini proprio dietro il largo tronco di un enorme albero, così temprato dal tempo
da divenire duro quanto una roccia.
Camminò
con attenzione sulle radici serpentine, fino a giungere di fronte ad una
piccola porticina malmessa. Era stata ricavata da un legno molto più debole e
precludeva l’ingresso a una stanza scavata proprio nel grande tronco.
Miracolo
e Frusta erano lì, a raspare sul legno marcio e a spingere con tutte le loro
forze per cercare di entrare.
Astell
li osservava con stupore. Non li aveva mai visti comportarsi in quel modo.
Miagolavano incessantemente come se stessero chiedendo aiuto per riuscire ad
arrivare dall’altra parte della soglia. Provò a dare una lieve spinta, aspettandosi
che la porta fosse chiusa, ma non era così.
I
cardini cigolarono sonoramente, mordendo la ruggine che li rallentava; Frusta e
Miracolo sgusciarono dentro appena ebbero spazio sufficiente.
«Oh,
ci mancava solo questa» sbuffò Astell.
Entrò controvoglia, spinta solo dal
desiderio di recuperare i suoi cuccioli per poi ritornare a casa.
La stanza misurava tre metri per lato, o
poco più.
Bastarono
pochi passi perché la donna si trovasse circondata dall’oscurità e da un
pungente odore ferroso. Pensò di essere in un capanno degli attrezzi in disuso.
Sentiva che i gattini stavano leccando
qualcosa che lei non riusciva a vedere, così alzò la mano e si concentrò per creare
una piccola fiammella arancione levitante.
La
prima cosa ad essere illuminata fu proprio l’espressione sconvolta di Astell
mentre si posava sul corpo di una ragazzina, ricoperto da una lunga chioma di
capelli sporchi che avevano assunto il colore del rame. Era distesa a terra,
tra un rastrello spezzato e un badile, e l’odore che aleggiava nell’ambiente non
proveniva dagli attrezzi arrugginiti: era odore di sangue.
Qualcosa
la fece allarmare.
Si
spostò lentamente. Sollevando a stento il corpo sui gomiti strisciò fino a un
angolo del casotto.
«Per
gli dei!...»
Vestiva
solo stracci sgualciti e logori ed era ricoperta di ferite. Soprattutto le
braccia e le gambe erano piene di graffi, concentrati sui palmi delle mani e
dei piedi.
Quando
Astell provò ad avvicinarsi, Miracolo e Frusta le si pararono davanti,
soffiando verso di lei e mostrando gli artigli. Anche la bambina emetteva un
suono simile, che cresceva di intensità man mano che la piccola fiamma magica
le si avvicinava. Per sua fortuna quando i gatti riuscirono a graffiare la loro
padrona il fuoco si dissolse nell’aria.
La
donna, stupita, cercò di riflettere con calma.
«Ti…
ti spaventa il fuoco? È così?» chiese.
La
voce della ragazzina tremava mentre emetteva mugugni quasi impercettibili e
privi di senso.
«…
ma… chi sei?...»
Sembrava
di essere di fronte ad un animale selvatico: la bambina provò a ritrarsi,
osservando con timore le rose nere ricamate sul guanto della donna. Era
diffidente, ma bloccata contro il massiccio muro di legno.
Scostando gentilmente una ciocca di capelli
e accarezzandole la guancia, Astell sussurrò: «Non aver paura…».
... continua
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