Friday, December 18, 2015

Konè_cap2_ITA



Konè, Ombra della Tigre

Capitolo 2
Il Re di Engble

   «Accidenti! Perché insistete tanto? State prendendo una scelta affrettata, madre.»
   «La tua opinione è molto importante per me, Orwell, ma non sono ancora così vecchia da non capire come è giusto agire. Pertanto farai come ho detto senza discutere oltre.»
   Questa era solo una parte del burrascoso confronto che ebbe luogo dopo che Astell aveva rivelato il desiderio di voler portare a casa con lei la bambina ferita.
   «Siamo nella capitale del regno. Potremmo portarla da qualche guaritore che si prenderà cura di lei. E se i suoi genitori la stessero cercando?»
   Inevitabilmente, tutte le obiezioni di Orwell si scontravano contro le crescenti preoccupazioni della madre. Al momento non importava il motivo per cui quella ragazzina si trovasse lì: di certo portarla lontano, almeno per un po’ di tempo, sarebbe stata la scelta più saggia e prudente.
   «Se qui fosse al sicuro, ora non sarebbe in queste condizioni!»
   «Posso capire che vi sentiate sola. Anche a me manca molto la mia cara sorella, ma…»
   Prima che potesse finire la frase, Orwell fu colpito da un sonoro ceffone. La madre lo fissava incollerita. Avrebbe voluto piangere, pur non sapendo bene se di rabbia o di tristezza, ma si sforzò di mantenere intatte la sua compostezza e fece valere la propria autorità.
   «Frena la lingua, figlio, prima che tu aggiunga parole delle quali potresti pentirti amaramente.»
   Lui tacque, come gli fu ordinato. Dentro di sé si rammaricò profondamente. Aveva riaperto una ferita dolorosa solo per cercare di avere ragione. Rimase in silenzio e a testa bassa mentre riceveva le disposizioni alle quali avrebbe ubbidito senza ulteriori rimostranze.
   «Chiama subito i cocchieri» ordinò Astell, sull’uscio della porticina di legno marcio: «Che portino una coperta per trasportare di nascosto la bambina alla carrozza. Tu va’ a prendere erbe mediche, bende, qualcosa da bere e da mangiare».
   Mentre parlava spostava lo sguardo dentro e fuori il piccolo capanno con nervosa frequenza. Quando ebbe tutto chiaro, Orwell se ne andò senza sollevare la testa.
   Al suo posto comparirono, pochi minuti dopo, due uomini robusti. Entrambi avevano barba e baffi scuri, molto folti, e due cappelli larghi sopra fitti capelli cespugliosi. Stringevano una coperta di tela scura sulla quale adagiarono delicatamente la bimba. Non senza fatica, perché lei continuò a dimenarsi con le poche forze che le restavano finché non fu adagiata sui sedili di una carrozza a quattro posti.
   Il tutto avvenne sotto gli sguardi attenti di Frusta e Miracolo, che si sedettero accanto alla loro padrona sulla carrozza. Orwell arrivò poco dopo a consegnare ciò che Astell aveva chiesto, così dopo brevi saluti e un urlo sgraziato i cavalli cominciarono a scalpitare sul terreno.
   La donna cambiò posto e adagiò la testa della fanciulla ferita sul suo grembo. Ne percepiva l’irrequietezza, ma fece appello a tutta la sua esperienza di madre. Si tolse i guanti e accarezzò i capelli sporchi con magistrale e sapiente lentezza, lasciando il tempo per assaporare il contatto caldo e affettuoso.
   Quel gesto fu inaspettatamente efficace e bastò a tranquillizzare la bambina per molte ore, durante le quali Astell si preoccupò di guarire al meglio le sue ferite, usando le erbe mediche e qualche magia curativa. Poi la aiutò a bere il latte mentre cercava di fare luce sul mistero del suo ritrovamento.
   «Da dove vieni?» chiedeva: «Perché eri in quel posto orribile da sola? E quei tagli? Come te li sei fatti?».
   Dopo qualche interminabile attimo di gelido silenzio, Astell decise di smettere di indagare. Gli occhi chiari di cristallino argento sembravano capire cosa lei stesse dicendo, eppure le labbra sottili restavano chiuse in una morsa serrata. Non poteva, o non voleva, dare una risposta?
   Quando Miracolo si avvicinò per leccare un dito alla giovane sconosciuta, lei miagolò come per ringraziarlo. Frusta, invidiosa, balzò a sua volta a mostrare la propria solidarietà strofinando la testa contro le guance pienotte della bambina.
   I tre rimasero accoccolati, sorvegliati dalla curiosa attenzione che cresceva in Astell, fino a quando non arrivarono a destinazione.
   Un alto cancello di ferro si spalancò e la carrozza attraversò lo stretto vialetto ciottolato, che tagliava in due un prato dall’erba corta, abbellito con fiori comuni colorati e profumati. Un domestico attendeva impettito ai piedi della scalinata in marmo di una casa a due piani, costruita in mattoni color sabbia e vantante decine di ampi finestroni.
   L’uomo, energico e arzillo nonostante i radi capelli bianchi, si affrettò a spalancare la portiera della carrozza. Porse la mano per aiutare la discesa della contessa Astell Writegland, ma fu molto sorpreso quando gli fu chiesto di preparare un bagno caldo e dei vestiti puliti per la ragazzina avvolta nella coperta.
   «Non capisco, contessa. Chi è questa signorina? Secondo la legge non può ospitare in casa… una persona qualunque…» disse con tono riverente e arrogante, consapevole di dover compiacere non solo la padrona della casa ma anche una ben più importante autorità. Dopo una breve pausa e qualche tentennamento continuò: «Mi dispiace, ma senza il consenso del re io non posso…».
   «Sii buono, Phenste» lo interruppe Astell con cortesia: «Fa’ come ho detto. E invia un messaggio al nostro caro sovrano. Che sia mio gradito ospite domani pomeriggio, per bere insieme le tisane che ho portato dalla capitale e discutere di un favore personale».
   «… come desidera» fu’ l’ultima frase pronunciata da Phenste fino al giorno seguente.
   La contessa Writegland, seduta su un divanetto, stava leggendo accanto a una finestra al piano terra. Il sole le illuminava la parte sinistra del viso, e si rispecchiava nel dolce infuso contenuto in una tazzina di ceramica.
   «Potrà anche essere distrutto o fragile, ma è qualcosa che voglio…»
   «Ah-ehm!» tossì Phenste, aprendo una porta dall’altra parte della stanza: «Re Tyndale, sovrano e protettore di Engble, è qui! Lunga vita al re!».
   A passi lenti, un anziano avvolto da un lungo mantello rosso si avvicinava, sostenendosi grazie ad un bastone affusolato, ornato con pietre preziose e rivestito d’oro. Quando, molti anni prima, aveva abdicato in favore di suo figlio come nuovo sovrano del regno, Tyndale aveva espressamente ordinato che gli fosse permesso di governare il villaggio di Engble, da trattare come una sorta di dominio indipendente all’interno del regno.
   Quella piccola cittadina avrebbe ospitato tutti i più importanti maghi nobili della corte reale, obbligati a lasciare ai loro figli il proprio posto a corte quando questi avessero raggiunto il trentesimo anno di età. Solo urgenze di estrema importanza erano portate all’attenzione della Corte dei Saggi, altrimenti immersa in un mare di ozio dorato.
   «Benvenuto, mio signore» disse Astell, alzandosi in piedi e inchinandosi di fronte al re.
   «Domando scusa per il ritardo. Non sono solito essere invitato con così poco preavviso e come un qualunque plebeo. Né mi sento il benvenuto» borbottò Tyndale, strofinando la barba bianca, indispettito per non essere stato considerato dalla bambina seduta sui cuscini azzurri del divano.
   Era stata vestita con un abito comodo ed elegante: bianco, ricamato finemente, con una gonna corta e stretta. I suoi occhi erano puro argento sposato al più prezioso dei diamanti; i capelli biondi, lunghi e lisci, avevano riacquistato il loro naturale colore acceso.
   «Lei è il favore personale per cui mi hai invitato?»
   «Sì, mio signore. Era ferita quando l’ho trovata e…»
   «Deve andarsene» affermò lapidario il re, sorridendo con malcelata indifferenza, mentre osservava le cicatrici rimarginate sulle mani e i piedi nudi.
   «Signore, chiedo solo il permesso perché viva in questa casa.»
   Tyndale rise: «Che assurdità. Ci troviamo nella culla della saggezza e della nobiltà. Vivere a Engble è un onore raro. Non c’è legame di sangue che vi leghi, pertanto questo privilegio le sarà negato. Riportala a Rhuddem, o dovunque tu l’abbia trovata».
   «Non può andarsene» disse Astell dopo una prolungata pausa. Per spiegare la sua affermazione con qualcosa di più che semplici parole, afferrò la bimba per la vita e la poggiò con i piedi sul pavimento.
   L’espressione disinteressata del re mutò per lo stupore quando vide la ragazzina barcollare, cadere e rialzarsi di scatto a quattro zampe. Tornata sul divano con un agile balzo, miagolò per richiamare l’attenzione di Astell.
   «Eccomi, piccola. Ora ti leggerò la fine della storia.»
   «Un bel teatrino, ma non sono in vena di scherzi. Dammi una spiegazione»
   «Nessuno scherzo, mio signore. La piccola non sa parlare. Né camminare. Sembra che capisca alcune parole, eppure agisce come un animale.»
   «Si tratta di qualche sorta di ipnosi?»
   «No… nulla di così banale. Sento che la sua condizione dipende da qualche incantesimo, purtroppo però non sono stata in grado di capire di cosa si tratti…»
   Il re si avvicinò lentamente.
   «Avrà già nove o dieci anni» sussurrava meditabondo. Quando allungò la mano la ragazzina bionda provò a graffiarlo, ma lui non si scompose.
   Ardue sono le scelte dei re. La maggior parte delle volte su un piatto della bilancia si pesano decisioni giuste che scontentano i molti, contrapposte, sull’altro piatto, da atti spietati che fanno la felicità del popolo. Viste le alternative, che cosa deve fare un re?
   Re Tyndale fece per andarsene. Meditava, ma la decisione che voleva comunicare era diversa dopo ogni passo. Prima di oltrepassare la soglia, presidiata dal fedele Phenste, ripensò a quanto fossero stati difficili gli ultimi anni per Astell, dopo la scomparsa della figlia minore.
   «Potrà restare finché non avrà imparato a parlare, camminare e… per gli dei!... Qualunque cosa le serva per vivere lontano da qui! Trasformare questo animale selvatico in una fanciulla indipendente sarà un dovere che, voglio sperare, d’ora in avanti non trascurerai. Perché se così sarà lo verrò a sapere.»
   Dopo quell’ammonimento il re andò via.
   La contessa tirò un sospiro di sollievo e si sedette, esausta, accanto alla sua terza gattina.
   «Hai sentito? Questa è casa tua adesso» affermò, gli occhi lucidi: «E a proposito, quello che stavamo leggendo prima è davvero adatto a questo momento».
   La donna si schiarì la voce mentre sfogliava le pagine sottili del libro di narrativa “Il racconto di noi tutti”. Era una storia semplice, sebbene i protagonisti si alternassero con insolita frequenza: due rivali, un roditore malvagio e una coppia di innamorati.
   «Può anche essere distrutta o fragile, ma è qualcosa che voglio proteggere. Non importa quanto sono lontano, non importa quanto sembra piccola. Posso sempre sperare in un domani migliore. Quando potrò ritrovare la strada per il posto che chiamo casa.»

...continua

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