Konè, Ombra della Tigre
Capitolo 2
Il Re di Engble
«Accidenti!
Perché insistete tanto? State prendendo una scelta affrettata, madre.»
«La
tua opinione è molto importante per me, Orwell, ma non sono ancora così vecchia
da non capire come è giusto agire. Pertanto farai come ho detto senza discutere
oltre.»
Questa
era solo una parte del burrascoso confronto che ebbe luogo dopo che Astell
aveva rivelato il desiderio di voler portare a casa con lei la bambina ferita.
«Siamo
nella capitale del regno. Potremmo portarla da qualche guaritore che si
prenderà cura di lei. E se i suoi genitori la stessero cercando?»
Inevitabilmente,
tutte le obiezioni di Orwell si scontravano contro le crescenti preoccupazioni
della madre. Al momento non importava il motivo per cui quella ragazzina si
trovasse lì: di certo portarla lontano, almeno per un po’ di tempo, sarebbe
stata la scelta più saggia e prudente.
«Se
qui fosse al sicuro, ora non sarebbe in queste condizioni!»
«Posso
capire che vi sentiate sola. Anche a me manca molto la mia cara sorella, ma…»
Prima
che potesse finire la frase, Orwell fu colpito da un sonoro ceffone. La madre
lo fissava incollerita. Avrebbe voluto piangere, pur non sapendo bene se di
rabbia o di tristezza, ma si sforzò di mantenere intatte la sua compostezza e fece
valere la propria autorità.
«Frena
la lingua, figlio, prima che tu aggiunga parole delle quali potresti pentirti
amaramente.»
Lui
tacque, come gli fu ordinato. Dentro di sé si rammaricò profondamente. Aveva
riaperto una ferita dolorosa solo per cercare di avere ragione. Rimase in
silenzio e a testa bassa mentre riceveva le disposizioni alle quali avrebbe
ubbidito senza ulteriori rimostranze.
«Chiama
subito i cocchieri» ordinò Astell, sull’uscio della porticina di legno marcio:
«Che portino una coperta per trasportare di nascosto la bambina alla carrozza.
Tu va’ a prendere erbe mediche, bende, qualcosa da bere e da mangiare».
Mentre
parlava spostava lo sguardo dentro e fuori il piccolo capanno con nervosa
frequenza. Quando ebbe tutto chiaro, Orwell se ne andò senza sollevare la
testa.
Al
suo posto comparirono, pochi minuti dopo, due uomini robusti. Entrambi avevano
barba e baffi scuri, molto folti, e due cappelli larghi sopra fitti capelli
cespugliosi. Stringevano una coperta di tela scura sulla quale adagiarono
delicatamente la bimba. Non senza fatica, perché lei continuò a dimenarsi con
le poche forze che le restavano finché non fu adagiata sui sedili di una
carrozza a quattro posti.
Il
tutto avvenne sotto gli sguardi attenti di Frusta e Miracolo, che si sedettero
accanto alla loro padrona sulla carrozza. Orwell arrivò poco dopo a consegnare
ciò che Astell aveva chiesto, così dopo brevi saluti e un urlo sgraziato i
cavalli cominciarono a scalpitare sul terreno.
La
donna cambiò posto e adagiò la testa della fanciulla ferita sul suo grembo. Ne
percepiva l’irrequietezza, ma fece appello a tutta la sua esperienza di madre.
Si tolse i guanti e accarezzò i capelli sporchi con magistrale e sapiente lentezza,
lasciando il tempo per assaporare il contatto caldo e affettuoso.
Quel
gesto fu inaspettatamente efficace e bastò a tranquillizzare la bambina per
molte ore, durante le quali Astell si preoccupò di guarire al meglio le sue ferite,
usando le erbe mediche e qualche magia curativa. Poi la aiutò a bere il latte
mentre cercava di fare luce sul mistero del suo ritrovamento.
«Da
dove vieni?» chiedeva: «Perché eri in quel posto orribile da sola? E quei
tagli? Come te li sei fatti?».
Dopo
qualche interminabile attimo di gelido silenzio, Astell decise di smettere di
indagare. Gli occhi chiari di cristallino argento sembravano capire cosa lei
stesse dicendo, eppure le labbra sottili restavano chiuse in una morsa serrata.
Non poteva, o non voleva, dare una risposta?
Quando
Miracolo si avvicinò per leccare un dito alla giovane sconosciuta, lei miagolò
come per ringraziarlo. Frusta, invidiosa, balzò a sua volta a mostrare la
propria solidarietà strofinando la testa contro le guance pienotte della
bambina.
I
tre rimasero accoccolati, sorvegliati dalla curiosa attenzione che cresceva in
Astell, fino a quando non arrivarono a destinazione.
Un
alto cancello di ferro si spalancò e la carrozza attraversò lo stretto vialetto
ciottolato, che tagliava in due un prato dall’erba corta, abbellito con fiori comuni
colorati e profumati. Un domestico attendeva impettito ai piedi della scalinata
in marmo di una casa a due piani, costruita in mattoni color sabbia e vantante
decine di ampi finestroni.
L’uomo,
energico e arzillo nonostante i radi capelli bianchi, si affrettò a spalancare
la portiera della carrozza. Porse la mano per aiutare la discesa della contessa
Astell Writegland, ma fu molto sorpreso quando gli fu chiesto di preparare un
bagno caldo e dei vestiti puliti per la ragazzina avvolta nella coperta.
«Non
capisco, contessa. Chi è questa signorina? Secondo la legge non può ospitare in
casa… una persona qualunque…» disse con tono riverente e arrogante, consapevole
di dover compiacere non solo la padrona della casa ma anche una ben più
importante autorità. Dopo una breve pausa e qualche tentennamento continuò: «Mi
dispiace, ma senza il consenso del re io non posso…».
«Sii
buono, Phenste» lo interruppe Astell con cortesia: «Fa’ come ho detto. E invia
un messaggio al nostro caro sovrano. Che sia mio gradito ospite domani
pomeriggio, per bere insieme le tisane che ho portato dalla capitale e
discutere di un favore personale».
«…
come desidera» fu’ l’ultima frase pronunciata da Phenste fino al giorno
seguente.
La
contessa Writegland, seduta su un divanetto, stava leggendo accanto a una
finestra al piano terra. Il sole le illuminava la parte sinistra del viso, e si
rispecchiava nel dolce infuso contenuto in una tazzina di ceramica.
«Potrà
anche essere distrutto o fragile, ma è qualcosa che voglio…»
«Ah-ehm!»
tossì Phenste, aprendo una porta dall’altra parte della stanza: «Re Tyndale,
sovrano e protettore di Engble, è qui! Lunga vita al re!».
A
passi lenti, un anziano avvolto da un lungo mantello rosso si avvicinava,
sostenendosi grazie ad un bastone affusolato, ornato con pietre preziose e
rivestito d’oro. Quando, molti anni prima, aveva abdicato in favore di suo
figlio come nuovo sovrano del regno, Tyndale aveva espressamente ordinato che
gli fosse permesso di governare il villaggio di Engble, da trattare come una sorta di dominio indipendente
all’interno del regno.
Quella
piccola cittadina avrebbe ospitato tutti i più importanti maghi nobili della
corte reale, obbligati a lasciare ai loro figli il proprio posto a corte quando
questi avessero raggiunto il trentesimo anno di età. Solo urgenze di estrema
importanza erano portate all’attenzione della Corte dei Saggi, altrimenti immersa in un mare di ozio dorato.
«Benvenuto,
mio signore» disse Astell, alzandosi in piedi e inchinandosi di fronte al re.
«Domando
scusa per il ritardo. Non sono solito essere invitato con così poco preavviso e
come un qualunque plebeo. Né mi sento il benvenuto» borbottò Tyndale,
strofinando la barba bianca, indispettito per non essere stato considerato
dalla bambina seduta sui cuscini azzurri del divano.
Era
stata vestita con un abito comodo ed elegante: bianco, ricamato finemente, con
una gonna corta e stretta. I suoi occhi erano puro argento sposato al più
prezioso dei diamanti; i capelli biondi, lunghi e lisci, avevano riacquistato
il loro naturale colore acceso.
«Lei
è il favore personale per cui mi hai invitato?»
«Sì,
mio signore. Era ferita quando l’ho trovata e…»
«Deve
andarsene» affermò lapidario il re, sorridendo con malcelata indifferenza,
mentre osservava le cicatrici rimarginate sulle mani e i piedi nudi.
«Signore,
chiedo solo il permesso perché viva in questa casa.»
Tyndale
rise: «Che assurdità. Ci troviamo nella culla della saggezza e della nobiltà.
Vivere a Engble è un onore raro. Non c’è legame di sangue che vi leghi,
pertanto questo privilegio le sarà negato. Riportala a Rhuddem, o dovunque tu l’abbia
trovata».
«Non
può andarsene» disse Astell dopo una prolungata pausa. Per spiegare la sua
affermazione con qualcosa di più che semplici parole, afferrò la bimba per la
vita e la poggiò con i piedi sul pavimento.
L’espressione
disinteressata del re mutò per lo stupore quando vide la ragazzina barcollare,
cadere e rialzarsi di scatto a quattro zampe. Tornata sul divano con un agile
balzo, miagolò per richiamare l’attenzione di Astell.
«Eccomi,
piccola. Ora ti leggerò la fine della storia.»
«Un
bel teatrino, ma non sono in vena di scherzi. Dammi una spiegazione»
«Nessuno
scherzo, mio signore. La piccola non sa parlare. Né camminare. Sembra che
capisca alcune parole, eppure agisce come un animale.»
«Si
tratta di qualche sorta di ipnosi?»
«No…
nulla di così banale. Sento che la sua condizione dipende da qualche
incantesimo, purtroppo però non sono stata in grado di capire di cosa si
tratti…»
Il
re si avvicinò lentamente.
«Avrà
già nove o dieci anni» sussurrava meditabondo. Quando allungò la mano la
ragazzina bionda provò a graffiarlo, ma lui non si scompose.
Ardue
sono le scelte dei re. La maggior parte delle volte su un piatto della bilancia
si pesano decisioni giuste che scontentano i molti, contrapposte, sull’altro
piatto, da atti spietati che fanno la felicità del popolo. Viste le
alternative, che cosa deve fare un re?
Re
Tyndale fece per andarsene. Meditava, ma la decisione che voleva comunicare era
diversa dopo ogni passo. Prima di oltrepassare la soglia, presidiata dal fedele
Phenste, ripensò a quanto fossero stati difficili gli ultimi anni per Astell,
dopo la scomparsa della figlia minore.
«Potrà
restare finché non avrà imparato a parlare, camminare e… per gli dei!...
Qualunque cosa le serva per vivere lontano da qui! Trasformare questo animale
selvatico in una fanciulla indipendente sarà un dovere che, voglio sperare, d’ora
in avanti non trascurerai. Perché se così sarà lo verrò a sapere.»
Dopo
quell’ammonimento il re andò via.
La
contessa tirò un sospiro di sollievo e si sedette, esausta, accanto alla sua
terza gattina.
«Hai
sentito? Questa è casa tua adesso» affermò, gli occhi lucidi: «E a proposito,
quello che stavamo leggendo prima è davvero adatto a questo momento».
La
donna si schiarì la voce mentre sfogliava le pagine sottili del libro di
narrativa “Il racconto di noi tutti”.
Era una storia semplice, sebbene i protagonisti si alternassero con insolita
frequenza: due rivali, un roditore malvagio e una coppia di innamorati.
«Può
anche essere distrutta o fragile, ma è qualcosa che voglio proteggere. Non
importa quanto sono lontano, non importa quanto sembra piccola. Posso sempre sperare
in un domani migliore. Quando potrò ritrovare la strada per il posto che chiamo
casa.»
...continua
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