Al Baracco
Capitolo 1
Il dattero della discordia
«Cosa
c’è? Hai fame?» chiese Abudi al giovanotto che stava al suo fianco.
Maleek
annuì. Con una mano, strattonava la tunica ramata dell’uomo, con l’altra
puntava il dito indice verso la bocca.
«Hai
ragione. È molto tardi.»
Abudi
si scusò col figlio. Inginocchiatosi, poggiò la fronte contro quella olivastra del
giovane, accarezzandogli la testa riccia.
Il
sole stava tramontando sulla città di Bologna, mentre il mercante arabo cercava
di ricordare quale fosse la via verso casa. Le sue lunghe vesti, di seta
pregiata, danzavano, guidate dal vento. I capelli, neri, come la corta barba
appuntita, erano raccolti in un turbante. Tre anelli d’oro risplendevano sulle
dita scure.
Stringendo,
saldamente, la tunica del padre, Maleek lo osservava agitare la testa, a destra
e a sinistra. Stava cercando una trattoria che, a quanto ricordava, era lì, da
qualche parte.
«Eccola!»
esultò Abudi.
Un’insegna
di legno, recitava: “Al Baracco, da Bruno
e Carlo”. La parola “Baracco” era
intagliata con molta cura. I nomi, invece, erano rovinati da una moltitudine di
graffi. Sembrava che fossero stati cancellati e poi riscritti, più di una
volta.
In
quel momento, Abudi non ci fece caso. Spalancata la porta, entrò.
Un
gran numero di tavoli, grandi e piccoli, circolari e rettangolari, erano
disposti su due livelli; uno leggermente rialzato rispetto all’altro. Il locale
era illuminato a giorno, da candele e torce a muro, che diffondevano la loro
calda luce, come stelle silenziose.
I
tavoli, adornati con tovaglie e drappi rossi, erano popolati da persone di ogni
tipo. Ecclesiastici, signorotti, eleganti dame e soldati armati, tutti seduti,
composti, a consumare il loro cibo. Si percepiva un senso di rispetto, quasi
sacro, verso ciò che si trovava nei piatti.
«Buonasera,
mio buon signore. Come può servirvi, il miglior cuoco della città? Preparo un
tavolo per voi e per il giovanotto?»
Un
uomo, alto, con folti capelli castani e una corta barba brizzolata, era apparso
di fronte al mercante. Aveva una postura perfetta. Il grembiule che portava
legato alla vita, un tempo immacolato, era ferito da almeno dieci diverse
varietà di sughi, salse e spezie in polvere.
«Sì»
disse Abudi, un po’ insicuro, ancora affascinato dall’eleganza di cui era
permeato quel luogo.
«Molto
bene. Seguitemi.»
Abudi
e Maleek, furono guidati attraverso il labirinto di tavoli, sedie e panche.
Passarono per un largo spazio circolare, vuoto, al centro del piano inferiore,
fino a raggiungere un posto appartato, in un angolo solitario.
Accanto
a loro, una piccola orchestra, di soli tre membri; un liuto, una viola e un
piccolo corno, partorivano delicate melodie.
«Vedo
che siete stranieri. Vi troverete bene qui, a Bologna. Ne sono certo. Per
quanto riguarda la cena, mi permetto di chiedere la vostra fiducia. Vi
preparerò qualcosa di gustoso, leggero e saporito».
La
sua sicurezza fu contagiosa. Dopo che Abudi ebbe accettato la proposta, il
taverniere fece un breve inchino e corse via.
«Sì,
Maleek. Vedrai che tra un po’ ci porteranno da mangiare» disse al figlio, che
continuava ad indicare di voler mettere qualcosa sotto i denti.
Un
commensale, robusto, decisamente in sovrappeso, seduto poco distante, si
intromise.
«Potrebbe
essere necessario più tempo di quanto pensiate.»
Stupito,
a tali parole, Abudi chiese una spiegazione.
«È
la prima volta che mangiate qui, vero? Eccolo, il motivo. Sta arrivando» disse
quello.
Il
mercante alzò lo sguardo. Un altro individuo, vestito come il primo taverniere,
si era avvicinato a grandi passi.
«Buonasera,
mio buon signore. Sono Bruno, cuoco di somma fama.»
Abudi
gli sorrise, sebbene l’entusiasmo con cui gonfiava ogni parola, sembrasse
eccessivo. Bruno era basso, con capelli corti, perfettamente ordinati. Il viso,
pulito, senza neanche un pelo di barba, lo faceva apparire più giovane di
quanto non fosse in realtà.
«Cosa
posso cucinare, di buono, per voi?»
Allora,
il primo cuoco ritornò. Portò due piatti fondi, pieni di zuppa scura,
contornata da datteri secchi.
«Datteri
in brodetto, con succo di olive, prezzemolo e un pizzico di pepe. Il tutto,
sfumato con una lacrima di vino.»
Prima
che Abudi potesse complimentarsi col taverniere, per la creatività dimostrata,
il cuoco più basso lo criticò aspramente.
«Cos’hai
cucinato, Carlo? Accidenti. È un bel mappazzone!»
Bruno
si scusò con i commensali. Non per la sfuriata, bensì per il cibo, a suo dire, impresentabile.
Afferrò i piatti frettolosamente, quindi annunciò che sarebbe andato in cucina,
a prendere la sua ultima creazione. Tornò, poco dopo, e presentò il suo
capolavoro.
«Formaggio
fuso, su montone al sangue. Ad accompagnare, datteri a spicchi, cotti sul
fuoco. So che il vostro popolo ama molto questo frutto. Se non sbaglio, lo
chiamate balah.»
Maleek,
affamato, ringraziò con un cenno del capo e cominciò a mangiare. Abudi, invece,
era preoccupato dagli sguardi ostili che si lanciavano i due cuochi.
«Vedo che la
cucina non è l’unica cosa in cui hai delle lacune, Bruno. Il dattero, in arabo,
si chiama tamer.»
«Non dire
sciocchezze. Si chiama balah. Lo ricordo, perfettamente. Così l’ha chiamato
quell’avventuriero orientale che passò di qui, il mese scorso.»
«Forse eri
distratto, ascoltandolo mentre cucinavi. Perciò non sei riuscito a far bene
nessuna delle due cose.»
Seguirono
spintoni e insulti, sempre più pesanti, finché i due si trovarono al centro
dello spiazzo circolare. Quando iniziarono a prendersi a botte, tutti i
commensali abbandonarono i tavoli e circondarono i lottatori, incoraggiandoli
animatamente.
Assistendo a
quella scena incredibile, Abudi pensò all’importanza delle apparenze. Tutti
diamo un’immagine di noi stessi e la prima impressione è, spesso, esatta. Ci
mostriamo per ciò che siamo. Nel caso dei due tavernieri, tuttavia, era
sbagliata.
«In Italia
sono pazzi… Sono tutti pazzi…»
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