Tuesday, March 1, 2016

Baracco_ITA



Al Baracco

Capitolo 1
Il dattero della discordia

«Cosa c’è? Hai fame?» chiese Abudi al giovanotto che stava al suo fianco.
Maleek annuì. Con una mano, strattonava la tunica ramata dell’uomo, con l’altra puntava il dito indice verso la bocca.
«Hai ragione. È molto tardi.»
Abudi si scusò col figlio. Inginocchiatosi, poggiò la fronte contro quella olivastra del giovane, accarezzandogli la testa riccia.
Il sole stava tramontando sulla città di Bologna, mentre il mercante arabo cercava di ricordare quale fosse la via verso casa. Le sue lunghe vesti, di seta pregiata, danzavano, guidate dal vento. I capelli, neri, come la corta barba appuntita, erano raccolti in un turbante. Tre anelli d’oro risplendevano sulle dita scure.
Stringendo, saldamente, la tunica del padre, Maleek lo osservava agitare la testa, a destra e a sinistra. Stava cercando una trattoria che, a quanto ricordava, era lì, da qualche parte.
«Eccola!» esultò Abudi.
Un’insegna di legno, recitava: “Al Baracco, da Bruno e Carlo”. La parola “Baracco” era intagliata con molta cura. I nomi, invece, erano rovinati da una moltitudine di graffi. Sembrava che fossero stati cancellati e poi riscritti, più di una volta.
In quel momento, Abudi non ci fece caso. Spalancata la porta, entrò.
Un gran numero di tavoli, grandi e piccoli, circolari e rettangolari, erano disposti su due livelli; uno leggermente rialzato rispetto all’altro. Il locale era illuminato a giorno, da candele e torce a muro, che diffondevano la loro calda luce, come stelle silenziose.
I tavoli, adornati con tovaglie e drappi rossi, erano popolati da persone di ogni tipo. Ecclesiastici, signorotti, eleganti dame e soldati armati, tutti seduti, composti, a consumare il loro cibo. Si percepiva un senso di rispetto, quasi sacro, verso ciò che si trovava nei piatti.
«Buonasera, mio buon signore. Come può servirvi, il miglior cuoco della città? Preparo un tavolo per voi e per il giovanotto?»
Un uomo, alto, con folti capelli castani e una corta barba brizzolata, era apparso di fronte al mercante. Aveva una postura perfetta. Il grembiule che portava legato alla vita, un tempo immacolato, era ferito da almeno dieci diverse varietà di sughi, salse e spezie in polvere.
«Sì» disse Abudi, un po’ insicuro, ancora affascinato dall’eleganza di cui era permeato quel luogo.
«Molto bene. Seguitemi.»
Abudi e Maleek, furono guidati attraverso il labirinto di tavoli, sedie e panche. Passarono per un largo spazio circolare, vuoto, al centro del piano inferiore, fino a raggiungere un posto appartato, in un angolo solitario.
Accanto a loro, una piccola orchestra, di soli tre membri; un liuto, una viola e un piccolo corno, partorivano delicate melodie.
«Vedo che siete stranieri. Vi troverete bene qui, a Bologna. Ne sono certo. Per quanto riguarda la cena, mi permetto di chiedere la vostra fiducia. Vi preparerò qualcosa di gustoso, leggero e saporito».
La sua sicurezza fu contagiosa. Dopo che Abudi ebbe accettato la proposta, il taverniere fece un breve inchino e corse via.
«Sì, Maleek. Vedrai che tra un po’ ci porteranno da mangiare» disse al figlio, che continuava ad indicare di voler mettere qualcosa sotto i denti.
Un commensale, robusto, decisamente in sovrappeso, seduto poco distante, si intromise.
«Potrebbe essere necessario più tempo di quanto pensiate.»
Stupito, a tali parole, Abudi chiese una spiegazione.
«È la prima volta che mangiate qui, vero? Eccolo, il motivo. Sta arrivando» disse quello.
Il mercante alzò lo sguardo. Un altro individuo, vestito come il primo taverniere, si era avvicinato a grandi passi.
«Buonasera, mio buon signore. Sono Bruno, cuoco di somma fama.»
Abudi gli sorrise, sebbene l’entusiasmo con cui gonfiava ogni parola, sembrasse eccessivo. Bruno era basso, con capelli corti, perfettamente ordinati. Il viso, pulito, senza neanche un pelo di barba, lo faceva apparire più giovane di quanto non fosse in realtà.
«Cosa posso cucinare, di buono, per voi?»
Allora, il primo cuoco ritornò. Portò due piatti fondi, pieni di zuppa scura, contornata da datteri secchi.
«Datteri in brodetto, con succo di olive, prezzemolo e un pizzico di pepe. Il tutto, sfumato con una lacrima di vino.»
Prima che Abudi potesse complimentarsi col taverniere, per la creatività dimostrata, il cuoco più basso lo criticò aspramente.
«Cos’hai cucinato, Carlo? Accidenti. È un bel mappazzone!»
Bruno si scusò con i commensali. Non per la sfuriata, bensì per il cibo, a suo dire, impresentabile. Afferrò i piatti frettolosamente, quindi annunciò che sarebbe andato in cucina, a prendere la sua ultima creazione. Tornò, poco dopo, e presentò il suo capolavoro.
«Formaggio fuso, su montone al sangue. Ad accompagnare, datteri a spicchi, cotti sul fuoco. So che il vostro popolo ama molto questo frutto. Se non sbaglio, lo chiamate balah
Maleek, affamato, ringraziò con un cenno del capo e cominciò a mangiare. Abudi, invece, era preoccupato dagli sguardi ostili che si lanciavano i due cuochi.
«Vedo che la cucina non è l’unica cosa in cui hai delle lacune, Bruno. Il dattero, in arabo, si chiama tamer
«Non dire sciocchezze. Si chiama balah. Lo ricordo, perfettamente. Così l’ha chiamato quell’avventuriero orientale che passò di qui, il mese scorso.»
«Forse eri distratto, ascoltandolo mentre cucinavi. Perciò non sei riuscito a far bene nessuna delle due cose.»
Seguirono spintoni e insulti, sempre più pesanti, finché i due si trovarono al centro dello spiazzo circolare. Quando iniziarono a prendersi a botte, tutti i commensali abbandonarono i tavoli e circondarono i lottatori, incoraggiandoli animatamente.
Assistendo a quella scena incredibile, Abudi pensò all’importanza delle apparenze. Tutti diamo un’immagine di noi stessi e la prima impressione è, spesso, esatta. Ci mostriamo per ciò che siamo. Nel caso dei due tavernieri, tuttavia, era sbagliata.
«In Italia sono pazzi… Sono tutti pazzi…»

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