Konè, Ombra della Tigre
Capitolo 3
Allevando un gatto randagio
«Miamma!»
Fu questa la prima parola che la bambina
imparò. Ci impiegò solo qualche settimana, dopodiché non si rivolse mai più ad
Astell in altro modo. Sorrideva ogni volta che usava quell’appellativo: “miamma”, adorabile nonostante il
piccolo difetto di pronuncia.
In pochi mesi riuscì a capire molte parole e
frasi, anche complesse, e dopo un anno fu capace di esprimersi ottimamente. Le
uniche imperfezioni erano miagolii soffocati, parole alterate da un “miao” involontario, ma Astell le ripeteva
con convinzione che non doveva sentirsi abbattuta.
«Avere qualcosa di diverso dagli altri non è
sempre una cosa negativa. Penso che ascoltarti sia molto piacevole, e questo
accento ti dà anche un’aria esotica e misteriosa. Quindi non preoccupartene più
micetta, d’accordo?»
Bastava chiamarla “micetta” o “gattina”, accompagnando
a quei nomignoli dei grattini sulla testa, per far spuntare sorrisi radiosi come
arcobaleni.
La fanciulla camminava con grazia, tenendo
un eccellente portamento. Mangiava lentamente, senza sporcarsi, ed era molto
obbediente. La contessa aveva curato la sua educazione fin nei minimi dettagli,
trattando la ragazza con attenzione e tanto amore. Si comportò con lei come se
fosse la figlia che aveva perduto tanti anni prima.
Per molti mesi Astell indagò invano, cercando
di far emergere il vero nome della bambina dai suoi ricordi confusi e
frammentari. Purtroppo però lei non lo ricordava più. La donna pensava, o forse
sperava, che un giorno quel nome sarebbe ritornato alla luce, riemergendo dalle
tenebre che lo avevano seppellito. Perciò evitò di affibbiare alla ragazzina un
nome che non fosse il suo.
La chiamò “tesoro” o “piccina” fino
a quando compì dodici anni, dopodiché usò
quasi esclusivamente appellativi più formali come “signorina” e “mia cara”.
Voleva farle capire cosa significasse crescere, prima che trovasse il suo posto
nella società. Sicuramente era un concetto importante, ma difficilmente comprensibile
per una ragazza alla quale non era permesso uscire di casa durante il giorno.
Di certo i nobili vicini al re avevano
scoperto in breve tempo che la contessa Writegland offriva ospitalità a una
ragazzina umile di origini sconosciute e si sarebbero mossi per allontanarla da
Engble il prima possibile. Perciò per evitare di indisporre oltremodo i più iracondi
membri della Corte dei Saggi, Astell aveva deciso di impedire alla sua protetta
di giocare fuori, tanto più di allontanarsi dalla tenuta. Si premurava di non
farle mancare nulla, tuttavia riteneva che quella precauzione fosse indispensabile.
Quando la sera e il tardo pomeriggio i maghi
si ritiravano nelle loro calde e accoglienti dimore, la bambina usciva in
giardino sotto l’attenta sorveglianza di Phenste, ogni volta in compagnia di
Frusta e Miracolo. I due gatti furono i suoi unici amici per molto tempo. Soltanto
con loro poteva mostrare quel lato dominante della sua personalità che non
avrebbe mai abbandonato.
Riusciva a farsi capire con semplici
miagolii, per lei molto più naturali del linguaggio degli uomini. Rotolava
nell’erba e si sporcava fino a diventare quasi irriconoscibile. Con il passare
degli anni riuscì a nascondere sempre meglio la sua indole selvaggia,
importante frammento del misterioso mosaico che la circondava, ma essa non
accennava a scomparire. Forse proprio questo esercitava una continua attrazione
per i gatti di Astell, che avevano dimostrato il desiderio di proteggere la
fanciulla sin da quando l’avevano trovata.
La nobildonna era preoccupata, non sapendosi
spiegare da quale magia avesse origine la strana aura di empatia selvatica che
emanava la ragazza. Pensò di dover essere ancora più severa, eppure quando la
guardava giocare serena e spensierata si tranquillizzava, convincendosi che
stava facendo la cosa giusta.
La sua felicità durò fino a quando tutti i
maghi nobili che invitava a casa, per conversare o anche solo per godere di una
diversa compagnia, la aggredivano chiedendo per quanto tempo ancora avesse
intenzione di giocare a fare da madre per la mocciosa che aveva trovato.
Nonostante la tenesse in casa, il suo disinteresse per le leggi di Engble
nonché per la levatura sociale dei suoi abitanti era degna di grande biasimo. Lei
rimaneva attonita, perché quelle accuse provenivano da persone che aveva sempre
considerato amiche.
Qualche volta le discussioni degeneravano in
veri e propri litigi, con urla e pesanti insulti. Anche con la testa sotto il
cuscino e la porta della camera chiusa, la bambina non riusciva a tenere
lontano l’odio che proveniva dal piano di sotto, e che si diffuse nella casa
come una malattia. Provò a chiedere cosa stesse succedendo alla sua “miamma” ma lei rimaneva sempre sul vago,
oppure cambiava conversazione più o meno bruscamente a seconda di quanto fosse
giù di morale.
Allora Astell scelse di isolarsi, tenendo per
sé i suoi problemi. Purtroppo non poté fare nulla per evitare di incontrare il
re quando si presentò di persona. Nella stessa stanza dove tanti anni prima
aveva mostrato clemenza e generosità era tornato per far valere la sua autorità,
rannicchiato su se stesso, ancora più ingobbito dal peso dell’età.
«Le voci in città non si placano da mesi,
contessa. I nobili non vogliono che questa ragazzina di umili origini continui
a vivere a Engble.»
«Capisco, mio re. Costoro devono essere
davvero intolleranti per odiare una fanciulla che ho nascosto per più giorni di
quanti ne riesca a ricordare.»
«Non fare del sarcasmo» rispose il sovrano
con aria severa: «Tuo figlio sta servendo bene il mio, e io non ho che da
gioire per il tuo ritrovato benessere. Tuttavia l’insoddisfazione generale è
stata portata alla mia attenzione, pertanto capisci perché mi trovo qui».
«Sono stata felice troppo a lungo?»
Il volto della donna si dipinse di malinconica
rassegnazione. Pur sapendo che quel giorno sarebbe arrivato non era ancora
pronta a restare di nuovo sola. Stanca, si lasciò cadere sulla sedia più
vicina.
«Non la manderò via» disse infine, con un
filo di voce.
«Mi dispiace Astell, ma non hai scelta. Sono
venuto fin qui per darti un ordine, non un suggerimento. Dovrai riportarla a Rhuddem
e scegliere un’altra famiglia alla quale affidarla.»
La donna scosse la testa, ripetendo: «No.
Non lo farò!».
Dietro la porta socchiusa, la ragazza dai
capelli dorati trattenne un singhiozzo. Era la prima volta che origliava una
conversazione e per questo provava un profondo senso di colpa. Eppure il suo
gesto derivava da un desiderio spontaneo, ossia capire cosa stesse succedendo
alla sua tranquilla quotidianità.
Dopo il secondo rifiuto di Astell la casa fu
scossa da una tremenda vibrazione.
«Il vostro sovrano ha parlato, contessa.»
Seguì il silenzio. Il re di Engble aveva
dimostrato che la sua autorità non era riposta solo nella corona che portava.
Nonostante la vecchiaia gli avesse sottratto molte energie era ancora
estremamente potente, tanto da dover essere rispettato e temuto.
«Non avete neanche dato un nome a quella
bambina» continuò, con tono stranamente calmo: «Come potete pretendere di
convincermi se voi per prima non siete ancora sicura di amarla?».
Nel corridoio Phenste si muoveva con passo
felpato, come al solito. Nascosto nella discrezione del silenzio si era spesso
trovato dietro le porte giuste, ma era abbastanza esperto da tenere le orecchie
aperte e la bocca chiusa. Quando vide la fanciulla raggomitolata a terra le si
avvicinò, porgendole la mano per invitarla a seguirlo, ad allontanarsi da lì.
«Perché
sono tutti arrabbiati con la miamma?» domandò lei: «È colpa miao?».
«Sì, signorina» rispose il maggiordomo. Non
fu sincero perché credeva che la ragazzina avesse bisogno di sentire la verità.
Fu semplicemente un atto egoistico e meschino. D’altronde è così che sono le persone:
invidiano chi ha qualcosa in più e disprezzano chi non ha nulla. Phenste non
era diverso dai tanti servitori che riescono a nutrire solo invidia e odio
verso chi ha avuto più fortuna.
A capo chino, la bambina chiese un’ultima
cosa mentre si incamminava verso la sua stanza: «Starebbe mieglio se io me ne
andassi?».
«Indubbiamente soffrirebbe per la vostra
mancanza, signorina, ma certamente i nobili della città smetterebbero di
tormentarla.»
Il rumore dei passi scandiva il battito del
cuore di lei, che rimuginava in silenzio su cosa avrebbe dovuto fare. Era
arrabbiata con se stessa, per i problemi che aveva causato involontariamente
alla donna che le aveva costruito una nuova vita dal nulla. Avrebbe fatto ogni
cosa per dimostrare quanto le fosse grata, persino rinunciare a tutto ciò che
aveva ricevuto.
«Buonanotte, signorina» disse il
maggiordomo, lasciando socchiusa la porta della camera che solitamente chiudeva
senza interesse.
Lei non rispose, forse perché istintivamente
percepiva l’ipocrisia dell’uomo.
L’incontro di Astell con il re di Engble
durò molte ore, fino a quando lui non fu troppo stanco e decise di andarsene.
Sebbene non avessero raggiunto un compromesso, il sovrano le fece capire che
presto avrebbe obbedito anche contro la sua volontà. Quella notte, sola nel
letto largo, la contessa si rannicchiò sotto le coperte e pianse fino ad
addormentarsi.
La mattina fu svegliata da Frusta e
Miracolo, che raspavano contro la porta della sua camera miagolando
rumorosamente. Affatto sollevata dai suoi grattacapi dopo la lunga notte corse
ad aprire ai due animali, che scattarono veloci fino alla camera della ragazza.
Astell li seguì, ancora assonnata e intorpidita,
trasalendo dopo aver spalancato la porta semiaperta: il letto era vuoto.
Sul cuscino era appoggiata una lettera.
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