Jhin, il Virtuoso
Come nasce un artista
«Dopo avermi battuto a mani nude, quel
viscido figlio di cagna mi derise per più tempo di quanto voglia ricordare. Ho
appena detto “figlio di cagna”?
Accidenti, che linguaggio inadeguato. È davvero inopportuno che un artista si
esprima in questo modo volgare.
Tuttavia deve cercare di capire: non è stato
facile per me. Mi aveva sfigurato in volto! Umiliato! Potrebbe sembrare una
storia banale, eppure le ferite dell’anima sono quelle che provocano i più
grandi stravolgimenti nella vita di un uomo.
In seguito scappai lontano, eppure non ho
mai dimenticato il sorriso di quell’uomo. Lo vedevo ogni notte tra le stelle, nelle
fiamme dei focolari, persino tra le assi di legno della squallida catapecchia
dove dormivo.
Ha notato che ho parlato al passato? “Lo vedevo”, ho detto. Perché ora,
finalmente, sono libero.»
Jhin si muoveva a passo di danza,
volteggiando con eleganza sul piccolo palcoscenico. Affianco a lui erano
montate delle sbarre di ferro secondo una logica astratta e incomprensibile.
Tutti i posti nella prima fila dabbasso erano occupati da cadaveri che
guardavano verso di lui con occhi vitrei. L’unica donna ancora viva, legata e
imbavagliata, si stava dimenando per cercare di liberarsi dalle corde che la immobilizzavano
contro la scultura di metallo.
«Mia cara, la prego di contenersi. Gli
spettatoti, tutti i suoi parenti, hanno gli occhi puntati su di noi. Dobbiamo
catturare il pubblico!»
Battuto vigorosamente un tacco sul legno duro,
l’uomo piroettò magistralmente fino al lato opposto del palco. Si fermò accanto
ad un tendone rosso cremisi e continuò a raccontare la sua storia.
«Libero, infine! Massacrai il fabbro che mi
ospitava e tutta la sua famiglia, e deposi i loro corpi attorno alla forgia. Con
uncini d’acciaio benedetti nel fuoco estrassi il ricordo di quel ghigno dalla
mente. Lo plasmai, e ciò che era sempre stato solo un funesto tormento divenne
qualcosa di reale. Una maschera. Questa maschera! In quell’istante nacque un
nuovo me. Una parte della mia coscienza, sopita sotto la solitudine e
l’insoddisfazione, si ridestò.
Da allora viaggiai per Valoran. Avrei
perfezionato la mia arte a tutti i costi! Nulla mi avrebbe fermato. O almeno
così credevo.»
La frase finale fu appena percettibile. Un
lento sussurro, mentre Jhin si inginocchiava, accarezzando con la mano la
maschera che indossava. Poi, il silenzio.
Per pochi attimi anche la donna prigioniera
fu incantata dall’esibizione, ma appena il suo grido soffocato ruppe il silenzio,
Jhin si alzò e sparò verso l’alto, distruggendo due rudimentali illuminatori
che stavano cospargendo di luce il palcoscenico.
«SILENZIO!»
Sospirò fino a calmarsi, poi si scusò per
aver alzato la voce.
«Non abbia fretta di morire, mia cara. Lo
spettacolo è solo a metà. Le chiederei, piuttosto, di accompagnare il seguito
della narrazione con singhiozzi e qualche lamento strozzato. Eccolo, il secondo
atto: il dramma!»
Calò l’illuminazione, la donna piangeva
disperata, costretta a prendere parte a quello spettacolo grottesco. Il
protagonista mascherato tornò a padroneggiare la scena.
«Mai avrei creduto che lo sfregio sul mio
viso sarebbe stata la più insignificante delle sofferenze. A Demacia persi le
gambe. Nel tentativo di sfuggire a un violento e rozzo energumeno, fui
distratto dal suono meraviglioso di uno strumento a corde e caddi malamente da
una balconata. Anni dopo, a Piltover, una donna brutale mi ingaggiò in un
barbaro scontro corpo a corpo e lì perdetti il braccio destro.
Da allora fui segregato nelle celle di
questa città. Isolato. Perseguitato dall’ignominia per le mie azioni. Trattato
come un mostro, soltanto perché coloro che detenevano il potere erano barbari e
incolti, incapaci di comprendere la bellezza dell’omicidio.
Ciò nondimeno, qualche musa ha baciato i
potenti uomini di Ionia. Essi sono riusciti a riportarmi nella mia terra
natale, e dopo molti anni mi liberarono, mi curarono; dopodiché sono state
commissionate alcune opere che ho realizzato, quasi mi vergogno a dirlo, con
supremo genio.
Il primo era un vecchio amico, colui al
quale devo tuttora dare merito per questo mio nuovo volto. Ho scoperto di
essere più simile a lui di quanto non credessi possibile, giacché aveva
anch’egli una maschera indosso.
In
seguito mi sono diretto dall’uomo che mi aveva catturato anni addietro, sebbene
debba riconoscere di essere stato approssimativo in questo secondo lavoro. Me
ne vergogno, ma la perfezione è ardua da raggiungere. Dovevo essere a corto di
creatività, giacché avevo omaggiato con la mia arte la bella fanciulla che mi
aveva fatto ascoltare le sue note. Sebbene non mi fosse stato ordinato, direi
che ero estremamente ispirato quel giorno.
Per finire, mia cara signora, mi è stata
indicata la sua famiglia. Non so quali affari voi aveste con Ionia, ma cosa
importa se posso abbandonarmi al piacere dell’arte? Inoltre in questa città ho
distrutto gli strumenti che si sono presi il mio braccio, lasciando la donna
che li portava a morire dissanguata. Un’amica ha provato a salvarla, ma non
credo ce l’abbia fatta a giudicare da come piangeva.»
Jhin sparò altri due colpi. Il teatro fu
inondato dall’oscurità. Solo un fascio di luce color latte discendeva
diagonalmente da una finestra sul soffitto, illuminando il volto terrorizzato
della donna legata alle sbarre di ferro.
«Sono un maestro nella mia arte. Ciò che
faccio ne è la prova» disse, liberandole la bocca.
Allora lei cominciò a urlare: «Aiuto!
Qualcuno mi aiuti! Vuole uccidermi! Salvatemi!» strillava.
«Voi non comprendete. Nessuno di voi vede le
rose che sbocciano tra il sangue e le lacrime, né le farfalle che viaggiano
leggiadre sul vento esalato da un ultimo respiro. Non vedete e perciò non
capite.
Sono qui per diffondere bellezza.
Perché artista è soltanto chi sa fare della
soluzione un enigma.»
Inchino verso il pubblico, e non un’altra
parola. Le grida della donna erano applausi, un battito di mani scrosciante
dopo la sua esibizione. Jhin scese dal palco e percorse la stretta navata centrale,
diretto verso il portone aperto che dava sulla strada deserta. Scomparve tra le
tenebre, abbandonando la donna tra lamenti e singhiozzi.
Quando una coltre di nubi coprì la luna e
nel teatro regnò incontrastata una inabissante oscurità, il suono fragoroso di
un potente fucile vibrò nella notte.
«Una rosa, anche se nascosta nel buio, sarà
sempre bellissima.
Fino a quando mi fermeranno, il mio lavoro
continuerà. Non ho scelta.»
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