Thursday, January 14, 2016

Jhin_the_Virtuoso_ITA



Jhin, il Virtuoso

Come nasce un artista

   «Dopo avermi battuto a mani nude, quel viscido figlio di cagna mi derise per più tempo di quanto voglia ricordare. Ho appena detto “figlio di cagna”? Accidenti, che linguaggio inadeguato. È davvero inopportuno che un artista si esprima in questo modo volgare.
   Tuttavia deve cercare di capire: non è stato facile per me. Mi aveva sfigurato in volto! Umiliato! Potrebbe sembrare una storia banale, eppure le ferite dell’anima sono quelle che provocano i più grandi stravolgimenti nella vita di un uomo.
   In seguito scappai lontano, eppure non ho mai dimenticato il sorriso di quell’uomo. Lo vedevo ogni notte tra le stelle, nelle fiamme dei focolari, persino tra le assi di legno della squallida catapecchia dove dormivo.
   Ha notato che ho parlato al passato? “Lo vedevo”, ho detto. Perché ora, finalmente, sono libero.»
   Jhin si muoveva a passo di danza, volteggiando con eleganza sul piccolo palcoscenico. Affianco a lui erano montate delle sbarre di ferro secondo una logica astratta e incomprensibile. Tutti i posti nella prima fila dabbasso erano occupati da cadaveri che guardavano verso di lui con occhi vitrei. L’unica donna ancora viva, legata e imbavagliata, si stava dimenando per cercare di liberarsi dalle corde che la immobilizzavano contro la scultura di metallo.
   «Mia cara, la prego di contenersi. Gli spettatoti, tutti i suoi parenti, hanno gli occhi puntati su di noi. Dobbiamo catturare il pubblico!»
   Battuto vigorosamente un tacco sul legno duro, l’uomo piroettò magistralmente fino al lato opposto del palco. Si fermò accanto ad un tendone rosso cremisi e continuò a raccontare la sua storia.
   «Libero, infine! Massacrai il fabbro che mi ospitava e tutta la sua famiglia, e deposi i loro corpi attorno alla forgia. Con uncini d’acciaio benedetti nel fuoco estrassi il ricordo di quel ghigno dalla mente. Lo plasmai, e ciò che era sempre stato solo un funesto tormento divenne qualcosa di reale. Una maschera. Questa maschera! In quell’istante nacque un nuovo me. Una parte della mia coscienza, sopita sotto la solitudine e l’insoddisfazione, si ridestò.
   Da allora viaggiai per Valoran. Avrei perfezionato la mia arte a tutti i costi! Nulla mi avrebbe fermato. O almeno così credevo.»
   La frase finale fu appena percettibile. Un lento sussurro, mentre Jhin si inginocchiava, accarezzando con la mano la maschera che indossava. Poi, il silenzio.
   Per pochi attimi anche la donna prigioniera fu incantata dall’esibizione, ma appena il suo grido soffocato ruppe il silenzio, Jhin si alzò e sparò verso l’alto, distruggendo due rudimentali illuminatori che stavano cospargendo di luce il palcoscenico.
   «SILENZIO!»
   Sospirò fino a calmarsi, poi si scusò per aver alzato la voce.
   «Non abbia fretta di morire, mia cara. Lo spettacolo è solo a metà. Le chiederei, piuttosto, di accompagnare il seguito della narrazione con singhiozzi e qualche lamento strozzato. Eccolo, il secondo atto: il dramma!»
   Calò l’illuminazione, la donna piangeva disperata, costretta a prendere parte a quello spettacolo grottesco. Il protagonista mascherato tornò a padroneggiare la scena.
   «Mai avrei creduto che lo sfregio sul mio viso sarebbe stata la più insignificante delle sofferenze. A Demacia persi le gambe. Nel tentativo di sfuggire a un violento e rozzo energumeno, fui distratto dal suono meraviglioso di uno strumento a corde e caddi malamente da una balconata. Anni dopo, a Piltover, una donna brutale mi ingaggiò in un barbaro scontro corpo a corpo e lì perdetti il braccio destro.
   Da allora fui segregato nelle celle di questa città. Isolato. Perseguitato dall’ignominia per le mie azioni. Trattato come un mostro, soltanto perché coloro che detenevano il potere erano barbari e incolti, incapaci di comprendere la bellezza dell’omicidio.
   Ciò nondimeno, qualche musa ha baciato i potenti uomini di Ionia. Essi sono riusciti a riportarmi nella mia terra natale, e dopo molti anni mi liberarono, mi curarono; dopodiché sono state commissionate alcune opere che ho realizzato, quasi mi vergogno a dirlo, con supremo genio.
   Il primo era un vecchio amico, colui al quale devo tuttora dare merito per questo mio nuovo volto. Ho scoperto di essere più simile a lui di quanto non credessi possibile, giacché aveva anch’egli una maschera indosso.
   In seguito mi sono diretto dall’uomo che mi aveva catturato anni addietro, sebbene debba riconoscere di essere stato approssimativo in questo secondo lavoro. Me ne vergogno, ma la perfezione è ardua da raggiungere. Dovevo essere a corto di creatività, giacché avevo omaggiato con la mia arte la bella fanciulla che mi aveva fatto ascoltare le sue note. Sebbene non mi fosse stato ordinato, direi che ero estremamente ispirato quel giorno.
   Per finire, mia cara signora, mi è stata indicata la sua famiglia. Non so quali affari voi aveste con Ionia, ma cosa importa se posso abbandonarmi al piacere dell’arte? Inoltre in questa città ho distrutto gli strumenti che si sono presi il mio braccio, lasciando la donna che li portava a morire dissanguata. Un’amica ha provato a salvarla, ma non credo ce l’abbia fatta a giudicare da come piangeva.»
   Jhin sparò altri due colpi. Il teatro fu inondato dall’oscurità. Solo un fascio di luce color latte discendeva diagonalmente da una finestra sul soffitto, illuminando il volto terrorizzato della donna legata alle sbarre di ferro.
   «Sono un maestro nella mia arte. Ciò che faccio ne è la prova» disse, liberandole la bocca.
   Allora lei cominciò a urlare: «Aiuto! Qualcuno mi aiuti! Vuole uccidermi! Salvatemi!» strillava.
   «Voi non comprendete. Nessuno di voi vede le rose che sbocciano tra il sangue e le lacrime, né le farfalle che viaggiano leggiadre sul vento esalato da un ultimo respiro. Non vedete e perciò non capite.
   Sono qui per diffondere bellezza.
   Perché artista è soltanto chi sa fare della soluzione un enigma.»
   Inchino verso il pubblico, e non un’altra parola. Le grida della donna erano applausi, un battito di mani scrosciante dopo la sua esibizione. Jhin scese dal palco e percorse la stretta navata centrale, diretto verso il portone aperto che dava sulla strada deserta. Scomparve tra le tenebre, abbandonando la donna tra lamenti e singhiozzi.
   Quando una coltre di nubi coprì la luna e nel teatro regnò incontrastata una inabissante oscurità, il suono fragoroso di un potente fucile vibrò nella notte.
   «Una rosa, anche se nascosta nel buio, sarà sempre bellissima.
   Fino a quando mi fermeranno, il mio lavoro continuerà. Non ho scelta.»

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