Ahrmio
Fili nella Nebbia Oscura
I
- Domande e
vecchie storie -
I
cardini della massiccia porta in legno di frassino scricchiolarono, come di
consueto quando un nuovo avventore entrava all’Anguilla d’Argento.
Varcata
la soglia della taverna, annunciata dal ticchettio prepotente dei tacchi che
battevano contro il pavimento, la donna appena arrivata fu investita da uno
sciame di occhiate indiscrete. L’odore rinfrescante di una rara birra scura,
era sovrastato dal pungente aroma di aringhe marinate nel vino, una ricetta caratteristica
dell’isola, protagonista in quasi tutti i piatti dei commensali. Lei si leccò
le labbra rosse, che si deformarono in una smorfia, mista di impazienza e disgusto;
i suoi lunghi capelli corvini, raccolti in una lunga e spessa coda, dondolavano
sinuosamente, mentre lei procedeva decisa verso un’area appartata della bettola.
Un
uomo anziano sedeva, solo, ad un tavolo inzuppato di birra, attorniato da una
decina di giovani marinai che saltavano agitati e urlavano con foga “È il tuo
turno!” a un membro del loro gruppo. Incitato dai compagni, uno spilungone senza
un orecchio avanzò, ostentando coraggio e sicurezza. Tra le dita callose stringeva
un rozzo coltello da lancio in ferro; di fronte a lui, il bersaglio: un geco
blu, maculato, che misurava poco più di un dito, stava scalando una robusta
trave di legno.
Il
giovane marinaio scagliò il coltello, che si conficcò poco distante dalla coda
dell’animale. Si levò un coro di disappunto, mentre un altro marinaio si faceva
avanti. Barcollante e confuso dall’alcol, lanciò il suo coltello in tutta
fretta, poiché il geco aveva iniziato a correre disperatamente verso la
salvezza. Il rettile cercava protezione fra le travi del soffitto, ed evitò
senza troppe difficoltà il coltello scagliatogli contro dal marinaio ubriaco.
“Fate
davvero schifo!” li sbeffeggiava il vecchio capitano, definendoli con tono
divertito marinai d’acqua dolce e figli di squali con la scabbia. La sua
voce era roca e secca. Probabilmente le corde vocali gli si erano consumate nel
corso degli anni, a furia di impartire ordini tentando di sovrastare il suono
del vento e delle onde del mare. Gli occhi erano profondamente infossati, le guance
scarne e gli zigomi, dai quali partivano ispidi ciuffi di barba grigia,
decisamente prominenti. Il volto dell’anziano dalla testa pelata sembrava un
teschio, rivestito da un sottile strato di carne e pelle.
Molti
marinai cominciarono a sbuffare, delusi dalle loro stesse capacità, ma
all’improvviso un dardo d’argento saettò nell’aria e trafisse il geco blu, che morì
dopo aver emesso qualche stridulo gemito di dolore. Tutti si voltarono, stupiti
nel constatare che il dardo mortale fosse stato scagliato dalla bella donna, entrata
poco prima, utilizzando una piccola balestra meccanica legata all’avambraccio
destro. Sulla schiena portava una seconda balestra, molto più grande e
minacciosa.
“Sono
qui per parlare con il Pescastorie”
annunciò lei.
Allora
il capitano rispose con un cenno del capo, invitando la donna a sedersi al suo
tavolo.
Lei
accettò, lanciando un sacchetto di tela che vomitò decine di monete d’oro, d’argento
e di bronzo.
“Ho
delle domande” disse, accompagnando il tintinnio delle monete con la sua voce decisa.
“Tu
hai vinto al gioco. Quest’oro demaciano non è necessario. Puoi chiedermi quello
che vuoi, cacciatrice” continuò il vecchio, intascando comunque qualche moneta
d’argento, e riavvicinando poi il sacchetto verso la sua proprietaria.
“Come
sai chi sono?”
Seguirono
interminabili attimi di silenzio. Da esperto cantastorie quale era, il capitano
aveva imparato, negli anni, che lunghe pause sono il modo migliore per creare
tensione e tenere il pubblico col fiato sospeso. Prima che la sua abitudine
potesse risultare scortese, rispose alla domanda.
“Pelle
candida come la luna, capelli e abiti del colore della notte. Sei una creatura
delle tenebre, non dissimile dai mostri che ti temono, ai quali dai la morte
con le tue armi d’argento. Nessuno, qui a Bilgewater, sprecherebbe l’argento
come fate voi cacciatori.”
“Molto
interessante” tagliò corto Vayne, “Perché ora non mi racconti cosa sta
succedendo in queste acque? Sono qui perché voglio sapere dove si stanno
radunando gli spettri e le apparizioni che solitamente si manifestano durante
l’Harrowing.”
“Sai,
io non sono un mago. Né un indovino” precisò l’anziano capitano, dopo una
risata, carica di stanchezza, “Sono un avido lettore e un osservatore del
mondo. Posso dirti da quale direzione scappano gli animali, quali urla
viaggiano nel vento, e posso indicarti la stessa isola di cui ho già parlato a
tutti cacciatori che sono venuti a cercarmi prima di te.”
Sembrò
che il discorso fosse finito, ma il Pescastorie aveva ancora molto da dire.
Sebbene Vayne non fosse interessata ad ascoltare deliranti fantasticherie su
Bilgewater o sulle Isole dell’Ombra, lui promise che ne sarebbe valsa la pena.
Anche tutti i marinai, che avevano continuato a rumoreggiare senza tregua fino
ad allora, si avvicinarono per ascoltare le parole del vecchio capitano. Lo
spilungone senza un orecchio gli porse un lungo sigaro, già acceso, così dense
nuvole di fumo bianco accompagnarono il fiume di parole che cominciò a sgorgare dalle sue labbra.
La
storia parlava di un re delle epoche passate, saggio, potente, forte e
generoso, le cui azioni condannarono il suo intero regno per l’eternità,
celandone la gloria dietro banchi di fitta nebbia maligna. Solo pochi dei suoi
discendenti sopravvissero dopo la caduta del regno, eppure rimasero legati a
quei luoghi in rovina, nei quali non avrebbero più potuto vivere serenamente. Gli
eredi del re ebbero figlie e nipoti, che ne ebbero a loro volta. Per secoli, lo
stesso sangue della dinastia si ribellò alla malvagità del re caduto, e vennero
alla luce soltanto figlie femmine. Nessuno può dire se ciò accadde per caso o
per destino, tuttavia si narra che solo il primo maschio avrebbe raccolto il
retaggio del suo antenato.
Umide
paludi, maledette dal tempo e dalle azioni consumate sopra di esse, attendono il
ritorno di un degno sovrano. Ma quale destino è auspicato per costui, dai
demoni ormai corrotti dalla nebbia?
Questa
è una storia ancora da scrivere. I cui narratori stanno sussurrando, nascosti
nell’oscurità.
II
- Il canto del Re -
Soltanto
un traghettatore si offrì di accompagnare Vayne fino all’arcipelago esterno
delle Isole dell’Ombra. Per convincerlo, la cacciatrice dovette offrirgli tutto
l’oro che era rimasto in suo possesso.
Il
vecchio Pescastorie aveva ragione: i pesci, gli insetti e gli uccelli, tutti scappavano
il più lontano possibile da una delle isole. Neanche durante il più
terrificante degli Harrowing passati si era mai vista una simile quantità di
Nebbia Oscura concentrata in un’area. La terra ne era totalmente inondata;
sembrava di percorrere le distese innevate del Freljord, dove la neve arriva
quasi fino alle ginocchia.
All’inizio
orientarsi fu parecchio difficile. La Nebbia Oscura ricopriva interamente
l’acquitrino in cui Vayne si trovava, rendendo pressoché impossibile muoversi
senza incappare in rami sporgenti o enormi pozzanghere. Dopo molte ore di
marcia, finalmente qualcosa ruppe la monotonia di quel territorio umido e
spettrale. Un cadavere, forse di uno dei tanti pescatori di Bilgewater di cui
si perdono le tracce quando navigano troppo vicini alle Isole dell’Ombra. Il
corpo avvizzito, divorato dagli spiriti maligni che infestano la nebbia, era
inginocchiato, immerso in un inchino assoluto, col capo chino fino a terra.
Tutti
i corpi rinvenuti da Vayne nelle ore che seguirono avevano la medesima
posizione: prostrati a terra e rivolti nella medesima direzione, un promontorio
nella zona occidentale dell’isolotto. In cima alla scogliera si ergeva una casa
a due piani, in legno e mattoni, costruita a strapiombo sul mare. La parte
centrale del tetto era crollata rovinosamente, eppure le macerie avevano
assunto la forma circolare di uno spigoloso rosone, che faceva ripensare
all’architettura delle cattedrali che alcuni regni costruirono secoli addietro.
Alla
casa diroccata si poteva giungere mediante un’unica via. Lungo di essa l’erba
era secca, e la terra, morta. I tronchi degli alberi, sfregiati da squarci
simili a sinistri sorrisi, erano inclinati proprio verso la struttura
fatiscente. Come loro, animali morti ormai irrigiditi e corpi imbalsamati si
prostravano in esagerati inchini, omaggiando qualsiasi cosa si celasse dietro
le pareti semi distrutte.
Un
fulmine rischiarò di luce violacea il cielo, ingrigito dall’abbraccio delle
nubi che si mescolavano alla Nebbia Oscura creando un sinistro vortice in
continuo movimento. Attorno a Vayne non c’era più alcun segno di vita. Il vento
smise di soffiare sui corpi morti e silenti, le onde del mare non si
infrangevano più contro la scogliera. Il vortice nel cielo era l’unica cosa che
continuava a muoversi, girando lentamente, come gli ingranaggi all’interno di
un carillon. E forse proprio nel suo moto perpetuo riproduceva un flebile suono,
accompagnato da un eco lontano:
“Anime morte, che
ancora vivete,
unitevi a noi
nell’inchino infinito,
poiché se l’erede celebrerete,
ricorderà il Re di
avervi sentito.
Il Canto del Re è a
lui assai gradito.
È giunto l’araldo
della Nebbia Oscura,
che noi serviamo
con timore e paura;
possa regnare per
l’eternità,
anima nera nella
notte più scura,
dal
cuore di tenebra, senza pietà.”
Nonostante
il riecheggiare di quel lugubre inno, Vayne entrò nella casa senza esitazione.
Aveva già affrontato numerosi orrori nel corso della sua vita; qualche corpo
imbalsamato e una cupa poesia non l’avrebbero fatta desistere. Prima che la
mano della cacciatrice toccasse il pomello della porta, questa si spalancò
senza emettere alcun suono. Lo stretto corridoio era illuminato da poche
candele, che emanavano una flebile luce verde-azzurra. Dalla parete penzolava
un quadro, malamente dipinto con colori ad acqua, raffigurante una tranquilla e
ordinaria scena di pesca. Sull’intero soffitto era stesa, per molti metri, una
rete da pesca, nella quale erano intrappolati decine di pesciolini arancioni
imbalsamati.
Rumore
di passi. Qualcuno alle spalle. La luce fioca proiettò sul muro l’ombra di un
uomo, col braccio sollevato e un coltello in mano. Troppo lento. Prima che la
lama potesse cominciare la sua mortale discesa, un dardo d’argento trafisse in
pieno petto il malintenzionato che, senza un lamento, cadde al suolo privo di
vita. Voltatasi, Vayne fu oltremodo sorpresa nel constatare che il suo
aggressore avesse un secondo foro nel petto, ben più grande di quello che lei gli
aveva inflitto: il cuore era stato asportato, e lui era diventato un manichino
animato dalle energie maligne della Nebbia Oscura.
Prima
che potesse riprendere fiato, la cacciatrice fu attirata da un secondo urlo.
“Aiuto!
Mamma, fermati!”
Vayne
percorse il corridoio con molta cautela. Dopotutto lei non si era recata su
quell’isola per salvare delle vite, ma per stroncarle. Entrò nella sala a
sinistra, attraversò un’altra piccola stanza e poi quella successiva.
All’improvviso notò una seconda ombra sul muro, di fronte a lei. Si affacciò, e
vide una donna che stava pugnalando ripetutamente un corpo completamente
nascosto sotto un telo nero. Senza indugiare, Vayne caricò la balestra e colpì
la donna in pieno volto, spegnendo per sempre la luce azzurra che brillava nei
suoi occhi e animava la sua follia.
Il
coltello era rimasto conficcato tra le pieghe del lenzuolo color pece. La
cacciatrice notturna non ascoltò il suo istinto, che le urlava di scappare via,
e allungò una mano per scoprire cosa ci fosse nascosto sotto la coperta. Quello
che seguì, accadde in una manciata di secondi.
III
- Buon sangue
non mente -
Una
mano robusta afferrò l’avambraccio destro di Vayne, riducendo in frantumi la
sua balestra; poi la scaraventò con forza contro la parete della stanza. Le
assi di legno si incrinarono all’impatto. Prima che la donna toccasse terra, la
creatura la caricò una seconda volta. I suoi arti, di legno come il resto del
corpo, erano controllati da fili quasi invisibili, che sgusciavano sibilando tra
le travi del soffitto, emettendo brevi e acuti fischi mentre fendevano il
legno, causando una pioggia interminabile di segatura.
La
marionetta balzò addosso a Vayne con tutta la sua mole. Sfondò il muro della stanza
e di quella successiva, senza permettere alla cacciatrice di riprendere fiato.
La lotta terminò nel corridoio principale, dove il burattino disarmò Vayne
della seconda balestra, che portava sulla schiena, e la imprigionò nell’enorme
rete appesa al soffitto. Allora ci fu un ulteriore crollo, effetto collaterale
della battaglia che aveva devastato il piano terra dell’abitazione: le assi che
costituivano il pavimento del piano superiore crollarono, facendo da scivoli
per le macerie che già pesavano sulla casa diroccata.
L’ondata
di polvere che seguì costrinse Vayne a chiudere gli occhi. Il rumore fu
assordante, tuttavia cessò quasi subito. Lei sollevò le palpebre con cautela.
Tutto era molto confuso. Mobili distrutti, libri bruciati, persino un paio di
corpi mummificati erano precipitati accanto alle sue gambe. Scosse la testa,
cercando di eliminare il fischio fastidioso che ancora le rimbombava nelle
orecchie. Guardando il cielo si accorse di trovarsi proprio sotto il vortice
generato dalla Nebbia Oscura, che ancora cantava la sua misteriosa profezia.
Poi
abbassò gli occhi. Notò che dal secondo piano, il cui pavimento era ancora
parzialmente integro, una figura seduta su un trono rozzamente intagliato la
stava osservando. Prima che potesse identificarla, le dita lignee della
marionetta afferrarono Vayne dietro la testa e la sbatterono violentemente
contro il pavimento, provocandole una ferita sulla fronte. L’impatto quasi la
face svenire. Solo le note ruvide di una voce che iniziò a parlarle, impedirono
alla sua coscienza di scivolare nell’oblio.
“Come
osi poggiare il tuo sguardo indegno sulla nostra eccelsa persona?! Per non
menzionare i tuoi atti ribelli, che hanno intralciato il nostro divertimento.
Il momento di pagare il fio è giunto, miserabile.”
“Che
razza di mostro sei, tu?” chiese Vayne, tossendo.
Per
tutta risposta, la marionetta la afferrò nuovamente. Le sbatté altre tre volte
la fronte contro il pavimento, allargando la ferita. Poi sollevò il volto,
ridotto a una maschera di sangue, verso l’anziano seduto sul trono. Era coperto
da un ampio mantello sgualcito, ricavato da sacchi di tela scura, con archi
color porpora, culminante in un largo cappuccio che ne copriva il volto fin
sotto le narici. Da due buchi circolari fuoriusciva la luce delle sue iridi.
Verde, la sinistra; verde e azzurra la destra, infiammata dallo stesso fuoco
ceruleo che vomitava dalla bocca, ogni volta che muoveva le labbra secche e
screpolate.
Il
braccio destro, rinsecchito, avvolto da una bendatura consumata, era sollevato
all’altezza della spalla. Il palmo aperto della mano, era rivolto verso il
vortice di Nebbia Oscura, e alle dita erano legati fili che salivano fino al
cielo. Sottili come capelli, tesi all’estremo, si perdevano nell’infinito
mistero delle nubi, e ricadevano sulle giunture della marionetta, per
controllarla.
“La
tua insolenza blasfema ha superato il limite! Ti abbiamo rivolto la parola
nonostante tu non abbia intonato il Canto del Re, e ciò che riceviamo sono
insulti e scherno? Gioisci, patetica umana, giacché sarà la nostra mano a porre
fine alla tua agonia!”
Appena
il vecchio smise di urlare, una lancia infusa del potere della Nebbia Oscura
colpì la sua marionetta, scaraventandola lontano da Vayne. Da un portale,
aperto nella nebbia stessa, fuoriuscì la Dama della Vendetta, anch’ella corrotta
dal tempo e dall’odio, con indosso un’armatura perforata dai segni del
tradimento che aveva subito. Le lunghe dita di Kalista erano strette attorno
alla sua lancia nera e alla grande
balestra di Vayne. Liberò la donna dalla rete nella quale era intrappolata, poi
gettò entrambe le armi a terra, di fronte a lei, lasciandole il tempo di fare
alla sua scelta.
Gli
occhi di Kalista, brillanti come azzurri fuochi fatui nella notte, fissavano inferociti
l’uomo seduto sul trono.
“Noi,
il reale Ahrmio, ci ricordiamo di te, schiava. Sei tornata per deludere il
nostro sangue, come già facesti in passato?”
Prima
che Kalista potesse rispondere, Vayne aveva afferrato la lancia nera e l’aveva
conficcata nel suo stesso petto. Conosceva le conseguenze, ma sapeva che
altrimenti non avrebbe avuto abbastanza forza per combattere. Percepì il potere
oscuro che aveva sempre combattuto fluire dentro di lei, restituendole le
forze.
“Noi
siamo legione. Per tempo immemore coltivammo il nostro odio, e oggi avremo la
nostra vendetta!”.
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